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LA FORMA & IL CONTENUTO
Riflessioni sulla diade che divide il campo dell’arte
di Pierangelo Tronconi

Ai nostri giorni il lavoro dei pittori, che è quello di creare immagini, a molti appare strano quando non provochi indignato stupore.
Questa situazione, a dire il vero, si è verificata più volte nel corso della storia dell’arte moderna ma, oggi, nel guazzabuglio degli eventi in atto, dove si riscontrano cadute di creatività, la stessa figura dell’artista è vista con diffidenza proprio per il proliferare dei codici, delle formule linguistiche e relativi scadimenti delle neo avanguardie che spesso approdono alla irresponsabilità nichilista e al kitsch.
Situazione imbarazzante e mortificante, dunque, che viene da lontano:
a mio avviso risale al tempo in cui si è incominciato a porre in oblìo una nozione capitalissima e risaputa, quella che riconosce all’arte la sua dimensione gnoseologica vale a dire che la ritiene una forma di conoscenza pur non essendo del tutto fondata sulla razionalità del…due più due fa quattro.
Il primo a riconoscere l’arte come forma di conoscenza fu il filosofo tedesco Alexander Baumgarten ( 1714-1772 ) che, appunto, si era occupato della teoria della conoscenza che chiamò gnoseologia e similmente del bello e dell’arte che chiamò estetica.
Baumgarten affermava che l’arte produce, con la bellezza, una forma di conoscenza che proviene dalle percezioni sensibili (=intuizioni) insieme alla mozione degli affetti, dai rispecchiamenti dell’immaginazione che si lega alla mnemonica , dalla fantasia che i romantici chiameranno respiro dell’anima e riconosceranno come attività spirituale, e pure dal vigore dell’intelletto quando produce concetti (=notions, direbbero gli inglesi).
E poiché noi viviamo in una selva di segni, di simboli, di metafore, di allegorie, di similitudini delle quali l’arte si è sempre “servita” per la loro funzione rappresentativa…
è accaduto che gli studi di estetica e di psicologia abbiano posto in luce, con gli aspetti simbolici, anche la qualità, l’efficacia comunicativa propria dell’arte.
John Dewey (1859-1952), il caposcuola del pragmatismo americano, nel suo saggio Art as experience (1933) scrisse queste memorabili parole: art is the most effective mode of communication because the objects of art are espressive che, a un dipresso, vogliono dire: l’arte è la forma più efficace di comunicazione perché gli stessi suoi strumenti sono espressivi, comunicativi.
E’ vulgatissima nozione infatti quella che riconosce all’arte di aver mutato nel corso della storia le ragioni dei suoi obiettivi: se –ad esempio- nel Medioevo era stata didascalica perché si proponeva come Biblia pauperum, la divulgazione del messaggio evangelico, nel Rinascimento fu celebrativa del Principe e della Chiesa. E se poi (…panta rei) ricordiamo che nel Sei-Settecento ,nel tempo in cui si affermava una ricca ed illuminata borghesia accanto a una aristocrazia godereccia,il fine dell’arte fu la  d e l e c t a t i o n, non ci diffonderemo sulle tesi innovative del romanticismo, esaltatore nell’Ottocento delle espressioni della creatività soggettiva, rivolte all’interiorità che approdarono ad altri mirabili esiti.
I quali furono possibili perché l’atto creativo di un’opera si realizzava naturalmente con la sintesi di quella diade costituita dalla f o r m a  e dal
c o n t e n u t o, la quale pur consentiva la ventata di chi privilegiava la forma a cui succedeva la voga di chi privilegiava il contenuto.
E qui ci viene da ricordare gli incontri, le impegnative discussioni del Papa con Michelangelo prima che costui salisse sui ponti della Sistina e come –dai concetti concordati- trovasse le immagini della sua pittura. Peraltro è bello ricordare il pensiero del sommo artista su questo argomento che apprendiamo dal famoso sonetto:
                                     Non ha l’ottimo artista alcun concetto
                                         c’un marmo in sé non circoscriva
                                     col suo soperchio e solo a quello arriva
                                        la man che obbedisce all’intelletto

E come dimenticare le appassionate conversazioni che il Botticelli si dice avesse col Poliziano fra gli studi e i lieti ozi alla corte di Lorenzo il Magnifico? Figura schietta di letterato-poeta, il Poliziano aveva uno squisito senso della forma e pure una spiccata indifferenza dei contenuti (F.De Sanctis) nondimeno era prodigo di consigli per l’amico Sandro di Mariano di Vanni Filipepi detto il Botticelli per avvertirlo sulla funzione degli “oggetti”, sull’efficacia degli atteggiamenti delle persone ritratte per indicargli i più adatti a riecheggiare e a rispecchiare significati. E così la mammola, la rosa, l’ellera, l’erba con i coloriti fiori, propri della sua immaginazione idillica, apparvero dipinti con la Primavera (…che vuol l’uom s’innamori) nel favoloso capolavoro.
L’attenzione ovvero lo studio per il contenuto ha costituito una vera disciplina chiamata  i c o n o l o g i a  sfociata in vari metodi di indagine e interpretazione a vari livelli fra conscio e inconscio ,intesi a mettere in luce i significati offerti, comunicati dall’arte.
E qui, alla rinfusa, mi vengono in mente alcuni grandi nomi che in questo campo si distinsero: Ippolito Taine, Walter Pater, John Ruskin, Bernard Berenson…Erwin Panofsky con l’indimenticabile nostro Matteo Marangoni ai quali, peraltro, aggiungo il ricordo del grande giurista e uomo politico Piero Calamandrei per un suo saggio – di mia remotissima lettura- nel quale attribuiva a Cesare Beccarla la inconsueta qualificazione di intransigente contenutista.
Racconta Calamandrei che il Beccaria amava dichiararsi estraneo al dispendio di energie degli autori a lui contemporanei per la ricerca delle novità formali fini a sé stesse.
Pur in possesso di una mirabile elocutio il Beccarla si diceva annoiato dal chiacchiericcio e dagli isterismi avanguardistici che già a quel tempo caratterizzavano le discussioni dei letterati che, sul rapporto della forma con il contenuto, privilegiavano la forma. L’espressione intransigente contenutista mi ha così indotto a riconoscere –massime nell’arte figurativa- come il contenuto e la forma rimangano una antinomia non superabile se pur consente –come si è detto- che alla voga contenutista succeda la ventata formalista.
Naturalmente con la parola forma intendo semplicemente ciò che nel suo aspetto esteriore appare determinato dalle sue linee e dai suoi colori.
Ebbene è capitato, nella metà del secolo scorso, che passasse come verità apodittica questa tagliente proposizione LA FORMA E’ IL SOMMO CONTENUTO, che ha tutta l’aria di essere di Hobbes, ma sembrava coniata apposta per la pittura informale,
trionfante con le opere affascinanti di Sam Francis, Clyfford Still, Rothko, Wols, Pollok eccetera, delle quali era giusto dire tutto il tutto il bene possibile ma non che avessero un contenuto. Meglio: se accadeva che un fruitore ne ravvisasse uno in un dipinto e, ad esempio, vi riconoscesse l’aria del mattino verso mezzogiorno, un altro fruitore più fantasioso vi riconoscesse una mucca che allatta il vitellino.
Ammirevole era la sincerità di quegli artisti che dichiaravano senza titolo le proprie opere, il che equivaleva ad ammettere l’assenza nella loro testa di un significato da comunicare.
Altri pittori ,arguti e astuti insieme, avevano dato alle proprie opere il titolo di  noumeno  e così, scegliendo la più problematica delle parole, che significa tout court
“cosa in sé” o “cosa pensata” ma non rivelando quale fosse questa “cosa” ammettevano,fingendo il contrario, di avere un bel nulla da dire che corrispondesse a qualche realtà o verità.
Quest’arte si caratterizza per l’astrazione dal contenuto o oggetto o realtà e giunge al formalismo più esasperato e alla indifferenza per i valori umani e sociali – aveva sentenziato il filosofo Galvano della Volpe. E a una mostra l’amico Mario De Micheli ebbe a dirmi questo folgorante giudizio: …vedi bene, Piero, questa è un’arte al terzo mese.
Per soprammercato ci è giunta poco tempo fa una notizia mozzafiato pubblicata dal Corriere della Sera: il Direttore del Museo d’Arte Moderna di New York arricchirà la sua raccolta solo con opere che non significano nulla (sic) e così per gli americani (…e per chi vuò fa l'americano) la parola CONTENUTO sarà solo flatus vocis.
L’arte dunque non sarà più una forma di conoscenza, non sarà più uno strumento di comunicazione, non esprimerà appercezioni, impulsi, volizioni, intuizioni e allora la critica, il cui compito è quello di valutare dialetticamente il rapporto fra forma & contenuto,
si ridurrà a giudicare e a riconoscere l’arte più meritevole quanto più ricca è l’ esperienza percettiva ed emotiva che essa procura: e il critico dovrà essere una specie di sensitivo. Viene così sancito che, senza contenuti, arte è ciò che si presta alla sola fruizione estetica o di gusto e alle parole fantasiose di certi critici nonché di certe lobbies imbonitrici.
Va pur detto che nel secolo scorso altri artisti, che avevano abbandonata, cacciata l’immagine dell’uomo dalla rappresentazione artistica (…forse perché ritenuta angosciante) seguivano altri sentieri della modernità, che doveva identificarsi col progresso inteso come fine del “vivere bene”. E così, nel trasporto estetico ,ci fu chi rispose dipingendo bottiglie tutta la vita (Moranti), chi cercò il sublime accostando due colori (Rothko), chi, riprendendo la poetica degli orinatoi (1917-Duchamp), si affidò allo sberleffo proponendo alla contemplazione scatolette di merda (anni Sessanta-Piero Manzoni), chi si profuse in gestualità ardite trafiggendo,infilzando tele col gesto fulmineo dei samurai (Fontana) … e non vorrò dimenticare la genialità dell’arte concettuale e dell’arte povera che più povera non si può, ma riuscì a dissolvere le nebbie che occultavano la realtà accatastando alla rinfusa oggetti disparati e rifiuti in sineddoche (Pistoletto)
Ora non so se dobbiamo rimpiangere il mondo che abbiamo perduto, non so se a voce alta si debba dire con le parole di Leopardi…o venturose e care e benedette/ l’antiche età…che tenevano in onore la piena umanità dell’arte realizzata con la sacrosanta diade forma-contenuto.

Ottobre 2012.. 

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